Il giornalismo a fumetti di Joe Sacco è una vera benedizione: non solo in sé, per tutti i suoi meriti intrinseci, ma pure perché è una dimostrazione lampante che quello dei comics è in generale
un linguaggio tuttora ricco, autonomo, pieno di sorprese, al quale sono concessi assi nella manica altrove impensabili. E ciò risulta evidente, almeno in questo caso, per due motivi
fondamentali.
Il primo - che riguarda strettamente il giornalismo - è che rispetto ai colleghi dei giornali o della televisione, il comic journalist ha palesemente bisogno di molto più tempo per
realizzare i suoi reportage. E questo requisito, solo in apparenza un ostacolo, senza dubbio invece giova alla riflessione, alla verifica più approfondita delle fonti, alla maturazione del
giudizio, e probabilmente, infine, ad una visione più obiettiva dello stato delle cose analizzato. I lettori se ne rendono bene conto, anche perché - ed ecco il motivo che riguarda invece il
fumetto - essi usano affrontare quanto leggono/vedono con una attenzione mediamente maggiore e soprattutto con maggiore partecipazione, mettendoci come sempre anche qualcosa di proprio (non è
questa una delle caratteristiche più tipiche, diciamo pure una regola, del leggere fumetti? riempire gli spazi tra una vignetta e l'altra con i propri ragionamenti e le proprie emozioni?).
Perciò l'opera di Joe Sacco ha un valore di assoluta originalità in questi tempi convulsi, istericamente affannati, sincopati: è un elogio della lentezza. Doppio, perdipiù: della lentezza
dell'autore, che, libero dalla tirannia di produrre materiali "in tempo reale", ha il tempo di guardarsi in giro, di farsi raccontare delle storie, di assimilare a fondo le atmosfere per poi
riprodurle meglio nelle sue pagine; e della lentezza del lettore, che è costretto ad entrare nella testa del reporter tramite il suo sguardo, ad ascoltare le testimonianze studiando in faccia chi
parla, ad assorbire senza superficialità non solo le "notizie" ma direttamente l'essenza delle situazioni. E' un po' come passare, e intanto sentire chiara la differenza, dalla "cronaca" alla
"storia". Tutto un altro genere di metabolizzazione. La visione, poi, certo, è e rimane di parte; ma anche i migliori libri di storia non sono mai neutrali.
Joe Sacco comunque fa bene, molto bene, il suo lavoro - anche perché è praticamente il primo ad affrontarlo in questo modo. Il reportage a fumetti, specie in situazioni drammatiche al limite
della guerra, in pratica se l'è inventato lui. E non ha neppure molti epigoni. Cavaliere solitario del comic journalism, si prende in pieno le proprie responsabilità e va avanti da solo.
Possiamo dire eroicamente.
Da buon corrispondente di guerra, infatti, si espone sempre in prima persona; e, come Ernie Pyle nella realtà e l'Ernie Pike di Oesterheld e Pratt nella fantasia, mette in scena direttamente se
stesso. E' testimone, autore e personaggio. E in questo senso è pure perfetta espressione del mondo del fumetto. All'origine della sua figura, del suo ruolo, del suo metodo ci sono certamente
grandi giornalisti come John Reed e Hunter S. Thompson; ma, per sua stessa ammissione, da ragazzino si è formato entusiasticamente sui war comics inglesi della Fleetway e sugli albi del
Sgt. Rock di Bob Kanigher e Joe Kubert. E ancora prima, durante la sua infanzia in Australia, c'erano - importantissimi - i racconti della Seconda Guerra Mondiale dei padri dei suoi amici,
provenienti dai più diversi Paesi europei. Per uno nato a Malta, cresciuto prima in Australia e poi negli Stati Uniti, a Los Angeles e a Portland, poi di nuovo a Malta, e in Germania, eccetera,
il contatto continuo con comunità sempre diverse, mistilingui, meticce, ha pesato di sicuro sulla concezione del mondo quanto sulle scelte politiche e pure estetiche. Così oggi nell'Olimpo del
fumetto internazionale non c'è più un unico apolide maltese, quel romantico marinaio con l'orecchino, né più un unico giornalista occhialuto in grado di trasformarsi all'istante in un eroe
difensore dei deboli - oggi c'è, e vogliamo ritrovarcelo a lungo, pure Joe Sacco.
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