Sono molti gli aspetti da sviscerare nel lavoro di Joe Sacco. Innanzitutto, questa sua capacità di essere reporter nel vero senso della parola, usando le immagini e non la scrittura per
descrivere squarci di vita vissuta a fianco dell'oggetto delle sue indagini. Poi, la sua capacità di leggere e ricostruire, molto abilmente da un punto di vista espositivo, i retroscena di una
brutta storia che vede un popolo preso in ostaggio sotto il compiacimento di una comunità internazionale interessata solo a difendere (o espandere) i propri mercati. Infine, la qualità di un
disegno e di una impaginazione che presenta ascendenze anche evidenti nell'underground: Robert Crumb è forse il primo nome che viene in mente. Quest'ultimo aspetto è particolarmente importante,
non tanto per la ricostruzione di una sorta di fenomenologia degli stili fine a se stessa, quanto per le relazioni che intesse con gli altri due appena citati. Il lavoro di Joe Sacco ci offre
infatti, più di ogni altro finora visto, la possibilità di riflettere sul rapporto fra immagine mediale, significato attribuito e reale referente di riferimento. Un argomento che negli ultimi
tempi è stato stranamente sottovalutato, nonostante il diluvio di immagini tragiche provenienti dagli Stati Uniti e dall'Afghanistan.
Qualche commentatore attento ha esplicitato, relativamente al disastro delle Twin Towers, quello che probabilmente molti (e, inconsciamente, soprattutto i bambini) hanno intuito: cioè
che le immagini degli impatti fra aerei e grattacieli (in particolare, forse, le seconde riprese da angolazioni diverse e più efficaci) sembravano già viste; e che, una volta inserite in un
circuito di reiterazione continua, finiscono per perdere la loro reale drammaticità1. Due sono probabilmente gli aspetti della questione: il primo, ovvero il senso del già visto,
possiamo anche solo empiricamente dire nasca dalla quantità di scene consimili (magari non con aerei, ma con elicotteri) offertaci da film o da videogiochi d'azione. Il che nulla ha a che vedere,
per lo meno per chi scrive, con campagne moralizzatrici contro cinema, videogiochi e cartoni animati, magari giapponesi.
Nella costruzione delle immagini, infatti, le opere di fiction usano necessariamente assetti iconografici dotati di forte pregnanza, ovvero meglio di una semplicità strutturale tale da
trasformarsi in efficacia percettiva e in capacità di fissarsi come soluzione stabile nel tempo. Sono i mass media a veicolare e costruire iconografie, ma, a maggior evidenza del fenomeno, è vero
che molto spesso si tratta di iconografie provenienti dalla storia dell'arte, che oggi troviamo magari riproposte nei manifesti pubblicitari2. Anche se non dovremmo dimenticare che
pure ciò che noi chiamiamo storia dell'arte è una finzione: i pittori del Quattrocento, tanto per dire, lavoravano su commesse non dissimili da quelle date agli attuali
pubblicitari3.
Ora, la bontà di tali iconografie non si misura solo nell'immaginario della fiction, ma anche in quello della immagine legata alla cronaca, alla descrizione cioè della "realtà". Le foto di
reportage vengono scelte, su centinaia di scatti, in base alla loro bellezza, cioè alla loro efficacia, al loro impatto, ovvero infine alla loro costruzione strutturale: il che rende
sostanzialmente impossibile separare compiutamente l'immagine di cronaca da quella di fiction. Non c'è correttore di contesto (qualcosa che ci ricordi di cosa stiamo parlando) che tenga: la
cronaca genera a sua volta iconografie, ad esempio quelle relative ai bombardamenti notturni, oggi purtroppo di nuovo di cronaca. A maggior ragione questo accade quando l'immagine è reiterata
costantemente, senza una regia, fino a che non si svuota di senso. Se esiste una cultura del loop in musica, non sembra esistere, perlomeno così sofisticata e condivisa, anche per le immagini:
forse l'unico esempio di loop ben costruito rimane il Blob di RAI 3, nel suo accurato mix di sequenze4. Quando la molla non è il montaggio, ma la semplice
ripetizione, il discorso cambia. La ripetizione è infatti utile per aumentare la possibilità di trattenere (e ricordare) ciò che viene percepito; ma oltre una certa soglia essa genera il fenomeno
contrario, ovvero la noia e la disattenzione, come sempre accade d'altronde nei fenomeni di saturazione degli input psicopercettivi5.
Una deriva di immagini stabili fino alla stereotipia invade dunque il pianeta, siano esse relative a una presunta "realtà" (oltretutto quanto mai manipolabile nel momento in cui i media diventano
pedine in sistemi di potere), siano esse provenienti dalla fiction. Una tendenza globale (questa sì davvero) alla ricerca di una semplicità assoluta, basata sull'uso di meccanismi
depositati nella memoria collettiva, come anche sull'uso di schemi il più possibile elementari e invarianti. Una tendenza che si impone dagli schermi televisivi allo spazio virtuale della rete:
che cosa sono le tanto celebrate teorie della usabilità se non delle ideologie del riduzionismo costruite su regolette elementari ad uso e consumo di clienti (leggi: aziende) spaventate dalla
novità della rete6? E che senso hanno le "faccine" appiccicate ai nostri messaggi mail, se non un tentativo di dare espressione a un sistema di grande utilità, ma per il quale è stato
scelto il carattere più semplice, inespressivo e standardizzato (l'Arial)7 ?
Se questo è il panorama, è ben comprensibile l'impatto del lavoro svolto da Sacco nei suoi reportage dalla Palestina come dalla Bosnia Erzegovina. Dal punto di vista della costruzione narrativa,
il fumetto offre ai soggetti di cui si occupa la possibilità di essere inseriti all'interno di una regia generale, quella, rigorosamente grafica, data dall'impaginazione della vignetta nella
pagina. Non dunque un susseguirsi sconnesso e ripetitivo di immagini, ma una orchestrazione di frammenti (quelli raccolti nei vari momenti/giorni dei reportage) che si affiancano in un palinsesto
meditato. E' ovvio che Sacco non costruisce uno schema unitario, a livello di impaginazione (e quindi anche di rapporto fra immagine e testo): non siamo in una sorta di tranche de vie,
in un'opera autobiografica nella quale il ricordo uniforma i soggetti di cui si va parlando, come per esempio avviene in un altro fumetto di grande impatto, con qualche similitudine con Sacco,
cioè Re in incognito di Vance e Burr8. Ogni momento delle storie di Joe è scandito da un preciso mood emotivo, derivante dallo stesso approccio/impaccio del nostro reporter,
che non nasconde, anzi evidenzia, le sue finalità, ma anche i suoi imbarazzi (evidenti spesso anche nel registro grafico impiegato), nel gestire il rapporto con i protagonisti dei suoi
reportage.
Questo peraltro ci ricorda che è molto raro, nel giornalismo odierno, operare proprio questa ricostruzione di senso a partire da frammenti che, insieme, costruiscano un quadro: è esattamente
quello che il sistema mediale non vuole, perché troppo uso a filtrare a dismisura l'informazione a seconda delle opportunità dei vari potentati legati ai media medesimi. L'impasse della stampa
segnalato da Eco nei confronti dell'attentato al WTC (doppiato, se vogliamo, anche con i bombardamenti in Afghanistan) non è sintomo di una crisi psicologica del giornalismo, ma effetto
dell'impossibilità di dare spiegazioni sufficienti a descrivere l'enormità dei due fenomeni, quando si è usi (o obbligati) a un'informazione fatta di veline, notizie ANSA e comunicati
stampa.
E fino a qui siamo al piano narrativo, dal quale ci spostiamo, tagliando in due quello che per un fumettista è processo unitario, il rapporto fra disegno e composizione. Ancora il lavoro di Sacco
è rivelatore. Avevamo citato Crumb: non è tuttavia importante comprendere le ascendenze nell'approccio di Sacco, quanto la funzionalità di questo nei confronti dell'odierno apparato mediale.
Siamo di fronte a una sorta di controcanto che unisce, al montaggio di cui sopra, una tessitura grafica e una impostazione formale autonome rispetto all'imperante deriva delle iconografie di cui
sopra. È una storia parallela, questo lo sapevamo, che nasce fuori dalla cultura (intesa come espressione di ideologia) e anche indipendentemente da logiche subculturali (per quanto frequenti
possano essere i punti di contatto9), definite pop underground con un termine che può essere ancora valido (ci sia consentito di non perderci in ulteriori digressioni) se lo
allarghiamo a tutto ciò che non è mainstream10.Una storia parallela fatta di Vaudeville, circhi itineranti, freak show, fumetti horror, manifesti psichedelici, fanzine punk.
E' una storia che se non ha assoluta integrità stilistica, possiede però alcuni tratti comuni che troviamo anche in Joe Sacco: innanzitutto, l'effetto grottesco, che guarda caso stona con
l'edulcorata visione del mainstream, e che non è ovviamente puramente legato all'idea di caricatura, ma anche a quella di straniamento11. Poi la maniacalità nell'esecuzione che porta a
una proliferazione controllata di linee, tratti, colori: tutta la figurazione psichedelica e visionaria (se vogliamo chiamarla così) scava maniacalmente nella forma quasi minandola; in una sorta
di combattimento fra la abilità certosina nell'andare sempre più verso il piccolo e la capacità di orchestrazione generale che mantiene riconoscibile l'insieme. Stessa sfida che si ripropone al
lettore: indagare i particolari senza perdere di vista il tutto. Un'attitudine che cozza contro la ordinaria necessità di dire (mostrare) cose di immediata comprensione, a un lettore che si pensa
(o si vuole) appena cosciente. Per quanto sia, l'idea comportamentista (che ispirò qualche bibbia della pubblicità degli anni Cinquanta) è quella che più piace ai moderni media e alle moderne
democrazie: stimolo - risposta, se dico una cosa il mio target (trad.: bersaglio) agirà di conseguenza. Sacco è l'altra faccia della questione. La cosa interessante è l'uso che Sacco fa di questo
stile, di questa scuola: ovvero il fatto che lo usa come chiave di volta per la sua formula di reportage per immagini. Una scelta fortunata, senza dubbio, ma che dalla sua peculiarità (il
giornalismo a fumetti, per l'appunto) ci aiuta a comprendere il particolare rapporto con il reale tipico di tale approccio. Non è forse Crumb un cantore della realtà, per quanto divertito,
dissacrante o surreale. Non è forse curioso che anche un autore dal segno molto variegato come Andrea Pazienza faccia ricorso a questa linea proprio nei più accorati tranche de vie (o apparenti
tali, per carità)? E non sono spesso le visioni di artisti affermati nella linea descritta, come Robert Williams, frutto diretto di mai rinnegate attività di strada, come il decoratore di
auto?
Sacco ci racconta che esiste, ed è sempre esistito, un modo diverso per comunicare; un modo retto da altre esigenze e altri scopi. Un modo che sa, e può, spingersi a raccontare la realtà, dandone
una interpretazione per sua natura complessa e diversificata, come il segno che la racconta. Ma una realtà che non lascia spazio a letture di superficie e facili stereotipi.
1 D. Pittéri, nell'ambito dell'Incontro Eroi Mediali, Milano, La Fabbrica del Vapore, 10 ottobre 2001
2 Cfr. C. Branzaglia, Comunicare con le immagini, Roma, Stampa Alternativa
3 Cfr. A. Hauser, Storia sociale dell'arte, trad. it. Torino, Einaudi, 1982 (XII ed.)
4 Il loop è uno degli elementi chiave della musica elettronica: cfr. l'interpretazione di R. Agostini, Techno ed esperienza ambientale, in G. Salvatore (a cura di),
Techno - trance, Roma, Castelvecchi, 1998
5 E' un fenomeno già descritto, proprio per quanto riguarda le immagini, da G. Kepes
6 A partire dalla 'Bibbia' di J. Nielsen, Web usabilità, trad. it. Milano, Apogeo, 2000
7 Cfr. G. Lussu, La lettera uccide, Roma, Stampa Alternativa, 1999
8 J. Vance - D. Burr, Re in incognito, trad. it. Granata Press, 1991: la storia di un giovanissimo vagabondo negli USA della recessione dei primi anni Trenta, raccontata con
un segno che ricorda la litografia espressionista.
9 Si intende dire che le subculture sono fenomeni sociologici, l'underground è un fenomeno produttivo-distributivo: cfr D. Hebdige, Sottocultura, Genova, trad. it. Costa&Nolan,
1983
10 P. Belsito, Notes from the Pop Underground, Berkeley, The Last Gasp of San Francisco, 1985
11 Cfr. E. Fuchs, “La caricatura presso i popoli europei”, in G. Anceschi, L'oggetto della raffigurazione, Milano, Etasilibri, 1992
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