Palestine. L'ha chiamato così, l'americano Joe Sacco, il suo lucidissimo reportage a fumetti sulla storia e la vita della gente di Palestina. Senza sentire il bisogno di aggiungere a
quel nome-programma alcun sottotitolo esplicativo, interpretativo, direzionale. E gli ci sono voluti alcuni anni, dal 1991 al 1994, per mettere definitivamente su carta la sua personale visione,
ma meglio sarebbe dire esperienza, di Palestina. Del complesso lavoro di questo narratore che non si accontenta di dire con le parole né di mostrare attraverso il disegno fanno testo tre
successive edizioni americane, rispettivamente del 1993, 1994 e 1998.
Tutto inizia nel 1991. "Volevo verificare di persona le condizioni di vita dei palestinesi sotto l'occupazione israeliana. Anche se a Madrid era stato avviato il 'processo di pace'... la
possibilità di un trattato di pace accettabile tra palestinesi e israeliani sembrava remota". Sacco se ne va dunque a Gerusalemme Est, e da lì in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. In
solitaria. Lasciandosi letteralmente portare da quella preziosissima cosa che è il caso e da una forte disponibilità a ascoltare, guardare, entrare in relazione. Da casa Sacco sembra essersi
portato solo alcune Domande. Uso la maiuscola per distinguere le vere Domande, quelle che vanno in cerca di una vera Risposta, cioè di tante e contraddittorie e provvisorie risposte che poi uno
deve aggiustarsi da sé fino a trovarci un senso, dalle finte domande, che in realtà sono giudizi già bell'e fatti, che chiedono solo conferma e spesso neanche quella, perché non ne hanno bisogno.
E sì che - ed è lo stesso Sacco a suggerircelo più volte - atterrare sul pianeta Palestina venendo dall'America a stelle e strisce non è mica roba da ridere: uno si ritrova tra i piedi un mucchio
di buoni sentimenti, parecchi sensi di colpa, una miscellanea di sentiti dire, luoghi comuni, cliché tardo-orientalisti e quel vago impulso alla fuga che è di chi, refrattario ai valori e alle
ragioni dell'Impero, dall'Impero pur sempre proviene e con esso inevitabilmente rischia di essere identificato.
Cosa fa dunque, in apertura di questo vertiginoso pamphlet/diario/libro di storia/racconto a più voci, il nostro autore? Direi che costruisce un triangolo, mettendo indirettamente in chiaro che
il numero magico, quello delle soluzioni, delle vie d'uscita, dei compromessi onorevoli, è appunto il 3. Innanzitutto un testo fitto fitto e sapiente a ricordarci i principi elementari di
economia politica palestino/israeliana. Poi una mappa, la geografia della discordia: Israele con la sua sagoma a lama di coltello che affonda nel Vicino Oriente e i territori occupati/stato di
Palestina in formazione aggrappati e quasi sul punto di scivolare via nell'assoluta verticalità del disegno. E infine lui, l'autore, il testimone, raccoglitore di storie e voce narrante, ripreso
discretamente di spalle mentre dall'alto delle mura di Gerusalemme, quasi confuso con la loro porosa superficie, osserva quel paesaggio di pietre e sabbia che verso il tramonto si tinge
d'oro.
Un "excursus storico", una cartina e uno sguardo.
Riproviamo: il passato, vale a dire la materia inerte e immutabile di ciò che è stato, il bisogno e l'ingombro della memoria; il presente, una cartografia che illustra le asimmetrie del potere e
la volatilità delle soluzioni dall'alto, vuoto e troppo pieno, silenzio, il bianco (Israele) che cancella e invade il nero (paesi arabi) oppure il nero che inghiotte il bianco, dietro la
simbologia del b/n si intuisce l'attrito dei corpi; l'osservatore distante, story-teller e testimone, estraneo alla scena se non per un atto di libera amorosità, abilitato a guardare e a
raccontare da una sorta di intimo fuori campo.
La sua storia di Palestina Sacco dice di averla costruita intervistando tutti quelli che incontrava, facendosi raccontare non solo la loro storia, ma anche le tante storie che ognuno aveva a sua
volta sentito raccontare da familiari, amici, conoscenti, e poi i sogni, i desideri, le paure, le fantasie, le piccole miserie, insomma la materia concreta della vita. La posizione dell'autore è
però molto più di quella di un bravo intervistatore: il suo segreto consiste, probabilmente, nella capacità di esserci senza dare nell'occhio, di diventare parte della scena al punto di far
dimenticare la propria presenza. Eppure in molte delle sue tavole Sacco include anche se stesso, sovente per fare da detonatore a una conversazione o a una confidenza, altre volte per costruire
un vero e proprio sottotesto, che è quello del diario personale, della riflessione sul 'che cosa ci faccio qui'. E sono, queste ultime, pagine davvero irresistibili, perché mettono a tema - alla
faccia di ogni correttezza politica o ideologico dover essere - la surreale doppia estraneità del pur motivato straniero in terra di Palestina: le sue caratteristiche somatiche, il suo
abbigliamento, i suoi occhialini da intellettuale occidentale, l'inglese-americano che parla, la sua macchina fotografica, sono un apparato segnaletico che lo inchioda a una vistosa alterità.
Scambiato spesso per quello che non è (israeliano, semplice turista), e come tale trattato, Sacco approfitta genialmente di questo primato dei significanti per dire a sua volta quelle verità che
spesso chi arriva in un luogo spinto dalla passione politica non ha più il coraggio di nominare o, forse, di vedere. Diciamo che la penna graffiante di Sacco non disegna né scrive sotto ricatto
politico o morale, e neppure sotto ricatto affettivo. Ed è questo suo essere così sincera e così sinceramente fuori linea, così poco ansiosa di 'servire' una qualche causa, a renderla credibile.
Joe Sacco ha probabilmente dato alla Nakba palestinese e alle sue feroci e attualissime conseguenze quello che con Maus Art Spiegelman diede, qualche anno fa, all'Olocausto: una storia
fatta di voci e di immagini che ci riguardano. Impossibile non ascoltarla con attenzione.
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